Odio social, quando il branco digitale colpisce: intervista de Il Giornale al CEO Marzio Ferrario

L’odio online non è un semplice effetto collaterale della comunicazione digitale. È un fenomeno in costante crescita che, secondo numerose ricerche, si alimenta di fattori psicologici, sociali e tecnologici. La vicenda raccontata da Il Giornale lo dimostra chiaramente: un’assessora di Lecco ha usato un profilo anonimo per insultare un cittadino critico verso l’amministrazione, generando clamore per la gravità degli attacchi e la contraddizione con il suo ruolo pubblico.
Episodi simili non costituiscono eccezioni, ma si inseriscono in un fenomeno sempre più diffuso che coinvolge milioni di utenti ogni giorno. Come sottolinea il nostro CEO Marzio Ferrario in un’intervista rilasciata a Il Giornale, studi recenti hanno dimostrato che tra il 2020 e il 2023, il 67% degli utenti internet a livello globale dichiara di essersi imbattuto in contenuti d’odio almeno una volta nell’ultimo anno. Si tratta di un’escalation emotiva che viene favorita dall’essenza stessa delle piattaforme social: i contenuti più polarizzanti generano maggiore interazione e, di conseguenza, maggiore visibilità. In questo contesto, l’odio diventa un prodotto con un valore di mercato, in grado di alimentare traffico e mantenere elevato il tempo di permanenza degli utenti.
Dal punto di vista psicologico, la cosiddetta “disinibizione online” contribuisce in modo determinante. Come riportato anche dall’Eurobarometro 2023, la percezione di distanza e anonimato riduce i freni inibitori, inducendo comportamenti che raramente troverebbero riscontro nella vita offline. A questo si aggiunge l’effetto branco: la sensazione di sentirsi spalleggiati anche da sconosciuti, che con like, commenti e reazioni approvano e alimentano l’ostilità, creando un clima di legittimazione reciproca e incoraggiando l’escalation dei toni.
Le conseguenze di questo clima tossico sono molteplici. Sul piano individuale, chi subisce campagne di denigrazione può sperimentare un impatto significativo sul benessere psicologico: ansia, insonnia, isolamento sociale, calo dell’autostima. Sul piano reputazionale, l’accumulo di contenuti diffamatori, condivisi e commentati in modo virale, può danneggiare l’immagine pubblica di un professionista o di un ente, con conseguenze economiche e legali.
Inoltre, come evidenziato nell’intervista, il confine tra libertà di espressione e violazione dei diritti altrui è sempre più spesso oltrepassato. La natura pubblica dei social network facilita la raccolta di prove documentali — screenshot, link, archivi digitali — che possono costituire elementi di prova in procedimenti civili e penali.
In Phersei, questo scenario è parte integrante delle nostre attività di indagine e tutela reputazionale. Attraverso strumenti di investigazione informatica, monitoraggio delle piattaforme social (SOCMINT) e analisi del rischio reputazionale, affianchiamo enti, aziende e privati nell’identificazione dei responsabili della diffusione dell’odio online. La consapevolezza della gravità del fenomeno e la predisposizione di strategie di contenimento rappresentano oggi un’esigenza imprescindibile, non più un’opzione.
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